Una messa (in latino) contro la depressione

di Silvana De Mari

Viviamo nell’epoca più pacifica e ricca della storia, ma siamo la generazione più disperata: abbiamo perso i riti condivisi, il mezzo per propagare le emozioni in una comunità coesa. Se vogliamo recuperare l’identità smarrita, riscopriamo l’eucaristia tradizionale.

Perché siamo depressi? Perché abbiamo perduto il senso di identità, abbiamo sostituito (caso unico nella storia) la religione con il nulla e non abbiamo più riti condivisi. Perciò la lezione di oggi dà un’indicazione chiara: per diventare infrangibili si può cominciare ad andare a messa. Magari in latino.

Perché è successo? Perché la prima generazione dall’inizio del mondo che non ha conosciuto né fame né guerra né epidemia è la più triste disperata? La depressione, i disturbi fobici sono aumentati del 1.200% negli ultimi 50 anni, i disturbi alimentari preferiamo non contarli.
Uno: ci siamo allontanati dal sole, e niente serotonina.
Due: abbiamo perso il movimento, elemento essenziale all’assetto dei neurotrasmettitori.
Tre: i giornali, la televisione, i media. Un giornale per rendere deve pubblicare l’eccezione, e l’eccezione è il male. I media ci parlano della nazione devastata dalla guerra, che è l’eccezione, non delle centinaia di nazioni che sono in pace, che sono la regola. Se facciamo i conti dei morti ammazzati, in percentuale, sull’astronomica cifra di 7 miliardi di creature umane, scopriremo che questa è l’epoca di minore violenza dall’inizio del mondo. Il telegiornale ci parla dell’uomo che ha fatto la rapina, non dei milioni di uomini che non l’hanno fatta perché loro sono la banale norma. I giornali e la televisione seguiti costantemente ci daranno l’impressione di vivere in un mondo orrendo, quello che non acquistiamo la capacità di ricostruire le proporzioni esatte attraverso i numeri.
Quattro, (forse il punto più importante): da 60 anni a questa parte siamo diventati l’unico popolo mai esistito che ha rinnegato la propria religione per non rimpiazzarla con nulla, se non il vuoto.

Siamo l’unica civiltà priva di celebrazioni con valore sociale. Quelle che resistono hanno perso ogni bellezza: è il caso della musica sacra dopo il Vaticano II.

Noi abbiamo perso il rito. Il rito è un’emozione condivisa, quindi il rito è il mezzo attraverso cui le emozioni si propagano e si moltiplicano. Se sono un’esperta di meditazione, riuscirò da sola con la mia mente a raggiungere picchi di estasi, come fanno normalmente molti monaci buddisti; quei picchi sono facilmente raggiungibili se appartengo a un gruppo che sta celebrando un rito, che questo rito sia la preghiera, magari in qualche posto particolare come Lourdes o Međugorje. Anche un rito completamente laico come assistere tutti insieme a una partita di calcio, oppure un rito (perché è un rito) come l’opera lirica o il concerto rock moltiplica emozioni, sia pure in maniera minore di quello religioso, e chiunque non condivida quel tipo di emozione trova il rito ridicolo. Ridicolo è una parola di disprezzo e disapprovazione. Tanto più basso è il nostro livello di disprezzo e disapprovazione, tanto più alta è la nostra capacità di provare gioia in quel rito. Qualsiasi rito è ridicolo per coloro che non lo condividono. Chi non condivide il calcio trova bizzarro tutto l’entusiasmo dei tifosi; il mio vicino di casa che detesta la lirica, non ha mai capito perché diavolo spendiamo dei quattrini per andare a sentire una cosa che peraltro abbiamo già sentito, e come sia possibile che ci colino le lacrime, quando il personaggio femminile muore di tubercolosi, tenendo presente che lo sapevamo già che sarebbe morta di tubercolosi, da anni.
Una delle cause di questo aumento folle della depressione è la perdita del rito religioso condiviso: noi siamo l’unica società, l’unica civiltà dall’inizio dell’esistenza dell’uomo che non ha riti condivisi. Solamente il 10%, una persona su dieci, in Europa va a messa, il che non permette ai propri figli di condividere il rito. Una seconda causa è la perdita della bellezza e della religiosità del rito condiviso. Il Concilio Vaticano II ha tolto dalla messa la musica di Johann Sebastian Bach e di Wolfgang Amadeus Mozart: è dimostrato che questa musica ha vibrazioni straordinarie che sostengono il cervello umano. Le ridicole canzoncine che si sentono oggi durante la messa sono avvilenti. La bellezza degli altari è stata desacralizzata in «mense» di plastica e ferro. La lingua sacra, il latino, che era la stessa dalla Polonia al Sud America dal primo al XX secolo, è stata cancellata e così l’ecumenismo è morto. La messa cattolica è stata imbruttita, secolarizzata, ridicolizzata. Gli alberi si riconoscono dai frutti. Mezzo secolo dopo la riforma liturgica del Vaticano II, una riforma che ha spazzato via 2.000 anni di storia per sostituirli con una modernità agonizzante, che ha spazzato via il sacro per sostituirlo con il sociale, le chiese sono vuote, trasformate in centri commerciali e moschee e potrebbero non sopravvivere alla prossima generazione per mancanza di sacerdoti.
I nostri figli devono avere un rito condiviso; non fate vivere i bambini senza un rito condiviso, è una violenza. Molti pensano: ma se io ingabbio mio figlio in una religione è una violenza. No, è una violenza se tu gli dici, tu fai parte di questa religione, se mai ne uscirai noi ti ammazziamo, quella è violenza. La perdita del rito condiviso è qualcosa di gravissimo, i nostri figli non hanno qualcuno da pregare quando moriamo. Potremmo anche morire che loro sono bambini e allora l’unica potenza gli arriverà dal rito condiviso; non è solo questo, il rito condiviso è anche altro. Cosa vuol dire costringere un bambino piccolo a stare fermo e zitto vicino a papà e mamma, mentre questi sono in chiesa ad ascoltare la messa oppure in sinagoga ad ascoltare la celebrazione dello Shabbat o in qualche altro posto ad ascoltare qualche altra roba; questo bambino non ha la sensazione della solitudine, perché papà e mamma sono vicino a lui, ma deve stare fermo e zitto, deve subire una frustrazione, non può giocare con mamma, non può chiacchierare con papà. Tutte le volte che cerca di fare qualche cosa gli arriva un’occhiataccia. Quindi è frustrato, noi cresciamo solo sulle frustrazioni ed è imponendo a questi bambini questa frustrazione, che loro imparano a stare fermi e zitti. Il bambino concentra l’attenzione su cose straordinarie: musica straordinaria, immagini straordinarie, odori straordinari, come l’incenso. Quindi esegue operazioni necessarie a uno sviluppo armonioso della capacità di concentrazione.

Non è una violenza trasmettere ai figli la propria religione. In chiesa imparano l’ordine e a contenere gli impulsi: lezione utile nella vita.

Studi enormi dimostrano l’importanza della spiritualità non solo nella costruzione della felicità, ma anche nella costruzione dell’equilibrio neurologico.
Quindi: istruzioni per diventare infrangibili. Cercate una chiesa dove dicano la messa in latino e andate a sentirla. La traduzione è su internet, ma è molto più bello procurarsi un messale, e sentire il peso della carta sapendo che quelle parole sono state le stesse per secoli e che per secoli rimarranno tali. Vuol dire avere un ponte con tutti gli antenati che ci hanno preceduto. Se non siete credenti e se non sapete il latino fatelo ugualmente. Nessuno può vivere senza identità. Se siete credenti ritroverete il senso del sacro e quello della bellezza.

Articolo originale qui.

Riprodotto per gentile concessione de La Verità.

Dominica III Adventus – 16 Dec 2018

In hac Missa adhibetur color violaceus vel rosaceus.

Ant. ad introitum Phil 4, 4-5
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte.
Dóminus enim prope est.

Non dicitur Glória in excélsis.

Collecta
Deus, qui cónspicis pópulum tuum
nativitátis domínicæ festivitátem fidéliter exspectáre,
præsta, quǽsumus,
ut valeámus ad tantæ salútis gáudia perveníre,
et ea votis sollémnibus álacri semper lætítia celebráre.
Per Dóminum.

Dicitur Credo.

Super oblata
Devotiónis nostræ tibi, Dómine, quǽsumus,
hóstia iúgiter immolétur,
quæ et sacri péragat institúta mystérii
et salutáre tuum nobis poténter operétur.
Per Christum.

Præfatio I vel II de Adventu.

Ant. ad communionem Cf. Is 35, 4
Dícite: Pusillánimes, confortámini et nolíte timére:
ecce Deus noster véniet et salvábit nos.

Post communionem
Tuam, Dómine, cleméntiam implorámus,
ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos,
ad festa ventúra nos prǽparent.
Per Christum.

Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)

Missalette in PDF with readings in English (to be printed on A3 sheets, front/back)

La lingua latina

Sull’uso della lingua latina nella liturgia, si rimanda al cap. II sulla lingua sacra. In questo contesto si ricorda solo che il culto cristiano, fino alla metà del IV secolo fu in lingua greca; quindi venne tradotto in latino. Latino che assume e mantiene i tratti eleganti di una lingua letteraria e ornata, a motivo dell’uso cultico: dunque non si assiste a una “democratizzazione” della Liturgia che qualcuno vorrebbe paragonare all’ormai prevalere della lingua vernacola nelle moderne celebrazioni! Quanto alla lingua volgare nelle celebrazioni liturgiche, va rilevato che nel secolo scorso si è progressivamente dato oculato spazio alle lingue nazionali per quelle parti dei riti in cui si ritiene esse possano favorire una migliore fruizione del rito da parte dei fedeli: è il caso del Rituale Romanum latino-francese (1948), latino-tedesco (1950), latino-italiano (1953), così come la concessione fatta già dopo il Concilio di Trento per alcune terre di missione o la pratica di leggere le letture nella lingua del luogo, così come esortato dall’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti sulla Musica Sacra e la Sacra Liturgia del 3 settembre 1958 (nn. 14c; 16c; 96e). Se più di una ragione consiglia di mantenere (o nella nostra epoca dovremmo dire ripristinare) l’uso della lingua latina nella Liturgia della Chiesa, una saggia attenzione pastorale non disdegnerà il ricorso alla lingua vernacola laddove consentito, secondo quanto detto sopra. L’introduzione nel culto della lingua volgare, in maniera pressoché esclusiva, è il “frutto maturo” del protestantesimo.

Il Guéranger scrisse profeticamente:

Poiché la riforma liturgica ha tra i suoi fini principali l’abolizione degli atti e delle formule mistiche, ne segue necessariamente che i suoi autori debbano rivendicare l’uso della lingua volgare nel servizio divino. Questo è uno dei punti più importanti agli occhi dei settari. Il culto non è una cosa segreta, essi dicono: il popolo deve capire quello che canta. L’odio per la lingua latina è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma. […] Riconosciamolo, è un colpo maestro del protestantesimo aver dichiarato guerra alla lingua sacra: se fosse riuscito a distruggerla, il suo trionfo avrebbe fatto un gran passo avanti. Offerta agli sguardi profani come una vergine disonorata, la liturgia, da questo momento, ha perduto il suo carattere sacro, e ben presto il popolo troverà eccessiva la pena di disturbarsi nel proprio lavoro o nei propri piaceri per andare a sentir parlare come si parla sulla pubblica piazza (P. Guéranger, Institutions Liturgiques, vol. I, Paris 1878, pp. 402-403, trad. F. Marino).

Marino Neri, Salirò all’altare di Dio. Principi di Sacra Liturgia, Fede & Cultura 2015, pp. 145-146 (riprodotte con il gentile permesso dell’Autore)

L’altare verso il popolo

È questo uno degli elementi sbandierati dai “neomodernisti” per segnare la cesura tra una “chiesa tridentina” e un “nuovo corso ecclesiale” postconciliare. Benché nessun documento né conciliare né successivo facciano obbligo di istituire nuovi altari “verso il popolo” laddove vi siano altari antichi, va detto che la questione è facilmente esauribile dal punto di vista storico lasciando parlare i fatti archeologici e letterari. Sappiamo infatti come l’attenzione del primo grande edificatore di basiliche, l’imperatore Costantino, fosse quella suggerita dalla mens liturgica del IV secolo, cioè quella di “orientare” (cioè edificare verso Oriente) la celebrazione. Questo significa che il punto di fuga verso cui si dirigeva ritualmente ogni atto di culto era l’Oriente, luogo del primo Paradiso; luogo da cui tornerà il Signore nella parusìa, simbolo stesso di Cristo secondo le ben note parole di Zaccaria: «Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79). Pertanto, le prime basiliche hanno l’altare rivolto verso la facciata principale, la quale è edificata verso Oriente (si vedano per esempio le basiliche patriarcali romane, la basilica dell’Anàstasis a Gerusalemme, ecc.). I fedeli, come mostrano molte evidenze archeologiche, non occupavano la navata centrale, bensì stipavano le ampie navate laterali, motivo per cui la basilica costantiniana tipica è a cinque navate (di cui quattro laterali), e le maggiori chiese erano addirittura a sei navate. Essi circumstant l’altare, come ricorda il Canone romano (Memento, Domine, famulorum famularumque tuarum et omnium circumstantium): e il verbo circumsto, in lingua latina, esprime “l’atto di chi sta intorno”, non già come un moderno commensale attorno al tavolo, bensì, in senso più ampio, a mo’ di corona rispetto a un vertice, che è nella fattispecie l’altare. Il circum latino corrisponde, di fatto come un calco in molti verbi e sostantivi composti, al greco perì, con la valenza certamente di “intorno”, ma anche di “presso”. Ma questa usanza di costruire edifici sacri con la facciata all’est reale comincia già a incrinarsi all’inizio del V secolo, quando Paolino di Nola, descrivendo la nuova basilica di Cimitile da lui innalzata in onore di San Felice di Nola, scrive: «La facciata della basilica, poi, non è rivolta verso oriente, come è usanza più comune, ma guarda verso la basilica di S. Felice, mio signore, rivolta verso il suo sepolcro». Si fa strada il concetto che modernamente si chiama “oriente ideale”, che tanto spazio avrà nell’edilizia sacra dall’età rinascimentale in poi: l’orientamento della chiesa non volge sempre a Oriente, bensì si simbolizza un “oriente convenzionale” che può essere come nel caso di Paolino, la tomba di un santo, un luogo di un’apparizione, o, in ultima analisi, la croce, che prenderà posto sopra l’altare coll’imporsi delle chiese coll’abside a est (e dunque con il mutamento strutturale dell’altare che si edifica attaccato alla dorsale o alla retro-tabula, un pannello ornamentale posto dietro gli altari stessi) tra il IX e il X secolo. Concludendo: la celebrazione cattolica è da sempre rivolta ad Deum, secondo modalità certamente differenti nel corso della storia, ma non contrastanti, armoniche quanto alla dottrina e alla spiritualità a esse sottese. La modalità celebrativa verso il popolo è di ascendenza squisitamente luterana: secondo lo spirito della riforma protestante, infatti, la Messa non ha carattere sacrificale, bensì è un pasto commemorativo dell’Ultima Cena del Signore. Valgano, su tutte, le inequivocabili parole di Lutero:

Lasciamo ancora sussistere gli indumenti per la messa, l’altare, le candele, finché seguiamo quest’uso o preferiamo cambiarlo. Ma se qualcuno in questo vuole procedere diversamente, lo lasciamo fare. Però nella vera messa, fra veri cristiani, l’altare non dovrebbe rimanere com’è e il sacerdote dovrebbe volgersi sempre verso il popolo, come, senza dubbio, ha fatto Cristo durante la Cena (sic). Ma aspettiamo che il tempo sia maturato per ciò (M. Lutero, Messa in volgare e ordine del servizio divino, in Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, Torino 1986).

Ancora una volta, il mito del ritorno alle origini si fa ideologia.

Marino Neri, Salirò all’altare di Dio. Principi di Sacra Liturgia, Fede & Cultura 2015, pp. 142-145 (riprodotte con il gentile permesso dell’Autore)

Dominica II Adventus – 9 Dec 2018

Ant. ad introitum Cf. Is 30, 19.30
Pópulus Sion, ecce Dóminus véniet ad salvándas gentes;
et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia
cordis vestri.

Non dicitur Glória in excélsis.

Collecta
Omnípotens et miséricors Deus,
in tui occúrsum Fílii festinántes
nulla ópera terréni actus impédiant,
sed sapiéntiæ cæléstis erudítio nos fáciat eius esse consórtes.
Qui tecum.

Dicitur Credo.

Super oblata
Placáre, Dómine, quǽsumus,
nostræ précibus humilitátis et hóstiis,
et, ubi nulla súppetunt suffrágia meritórum,
tuæ nobis indulgéntiæ succúrre præsídiis.
Per Christum.

Præfatio I de Adventu.

Ant. ad communionem Bar 5, 5; 4, 36
Ierúsalem, surge et sta in excélso,
et vide iucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.

Post communionem
Repléti cibo spiritális alimóniæ,
súpplices te, Dómine, deprecámur,
ut, huius participatióne mystérii,
dóceas nos terréna sapiénter perpéndere,
et cæléstibus inhærére.
Per Christum.

Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)

Missalette in PDF with readings in English (to be printed on A3 sheets, front/back)

Funerale del vescovo Morlino

Questo è il video del funerale del vescovo Morlino (diocesi di Madison):

Funeral Mass for The Most Rev. Robert C. Morlino, Bishop of Madison

Pubblicato da Diocese of Madison su Martedì 4 dicembre 2018

La santa Messa è ad orientem

In Officio divino lingua latina clericis servanda est

§1. Iuxta sæcularem traditionem ritus latini, in Officio divino lingua latina clericis servanda est, facta tamen Ordinario potestate usum versionis vernaculæ ad normam art. 36 confectæ concedendi, singulis pro casibus, iis clericis, quibus usus linguæ latinæ grave impedimentum est quominus Officium debite persolvant.
§2. Monialibus, necnon sodalibus, sive viris non clericis sive mulieribus, Institutorum statuum perfectionis, in Officio divino, etiam in choro celebrando, concedi potest a Superiore competente ut lingua vernacula utantur, dummodo versio approbata sit.
§3. Quivis clericus Officio divino adstrictus, si Officium divinum una cum cœtu fidelium, vel cum iis qui sub § 2 recensentur, lingua vernacula celebrat, suæ obligationi satisfacit, dummodo textus versionis sit approbatus.

Sacrosanctum Concilium, 101


La lingua dell’ufficio divino

§1. Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina. L’ordinario tuttavia potrà concedere l’uso della versione in lingua nazionale, composta a norma dell’art. 36, in casi singoli, a quei chierici per i quali l’uso della lingua latina costituisce un grave impedimento alla recita dell’ufficio nel modo dovuto.
§2. Alle monache e ai membri degli istituti di perfezione, sia uomini non chierici che donne, il superiore competente può concedere l’uso della lingua nazionale nell’ufficio divino, anche celebrato in coro, purché la versione sia approvata.
§3. Ogni chierico obbligato all’ufficio divino, che lo recita in lingua nazionale con i fedeli o con quelle persone ricordate al 2, soddisfa al suo obbligo, purché il testo della versione sia approvato.

Sacrosanctum Concilium, 101


§1. In accordance with the centuries-old tradition of the Latin rite, the Latin language is to be retained by clerics in the divine office. But in individual cases the ordinary has the power of granting the use of a vernacular translation to those clerics for whom the use of Latin constitutes a grave obstacle to their praying the office properly. The vernacular version, however, must be one that is drawn up according to the provision of Art. 36.
§2. The competent superior has the power to grant the use of the vernacular in the celebration of the divine office, even in choir, to nuns and to members of institutes dedicated to acquiring perfection, both men who are not clerics and women. The version, however, must be one that is approved.
§3. Any cleric bound to the divine office fulfills his obligation if he prays the office in the vernacular together with a group of the faithful or with those mentioned in 52 above provided that the text of the translation is approved.

Sacrosanctum Concilium, 101


§1. Gemäß jahrhundertealter Überlieferung des lateinischen Ritus sollen die Kleriker beim Stundengebet die lateinische Sprache beibehalten. Jedoch ist der Ordinarius ermächtigt, in einzelnen Fällen jenen Klerikern, für die der Gebrauch der lateinischen Sprache ein ernstes Hindernis für den rechten Vollzug des Stundengebetes bedeutet, die Benützung einer nach Maßgabe von Art. 36 geschaffenen muttersprachlichen Übersetzung zu gestatten.
§2. Der zuständige Obere kann den Chorfrauen sowie den Mitgliedern der Orden und ordensähnlichen Gemeinschaften aller Art, seien es Männer, die nicht Kleriker sind, seien es Frauen, gestatten, daß sie für das Stundengebet auch im Chor die Muttersprache benutzen können, sofern die Übersetzung approbiert ist.
§3. Jeder zum Stundengebet verpflichtete Kleriker, der zusammen mit einer Gruppe von Gläubigen oder mit den in § 2 Genannten das Stundengebet in der Muttersprache feiert, erfüllt seine Pflicht, sofern der Text der Übertragung approbiert ist.

Sacrosanctum Concilium, 101


Uso del latín o de la lengua vernácula

§1. De acuerdo con la tradición secular del rito latino, en el Oficio divino se ha de conservar para los clérigos la lengua latina. Sin embargo, para aquellos clérigos a quienes el uso del latín significa un grave obstáculo en el rezo digno del Oficio, el ordinario puede conceder en cada caso particular el uso de una traducción vernácula según la norma del artículo 36.
§2. El superior competente puede conceder a las monjas y también a los miembros, varones no clérigos o mujeres, de los Institutos de estado de perfección, el uso de la lengua vernácula en el Oficio divino, aun para la recitación coral, con tal que la versión esté aprobada.
§3. Cualquier clérigo que, obligado al Oficio divino, lo celebra en lengua vernácula con un grupo de fieles o con aquellos a quienes se refiere el § 2, satisface su obligación siempre que la traducción esté aprobada.

Sacrosanctum Concilium, 101


Langue

§1. Selon la tradition séculaire du rite latin dans l’office divin, les clercs doivent garder la langue latine; toutefois, pouvoir est donné à l’Ordinaire de concéder l’emploi d’une traduction en langue du pays, composée conformément à l’article 36, pour des cas individuels, aux clercs chez qui l’emploi de la langue latine est un empêchement grave à acquitter l’office divin comme il faut.
§2. Quant aux moniales et aux membres, hommes non clercs ou femmes, des instituts des états de perfection, le supérieur compétent peut leur accorder d’employer la langue du pays dans l’office divin, même pour la célébration chorale, pourvu que la traduction soit approuvée.
§3. Tout clerc astreint à l’office divin, s’il célèbre celui-ci dans la langue du pays, avec un groupe de fidèles ou avec ceux qui sont énumérés au §2, satisfait à son obligation du moment que le texte de la traduction est approuvé.

Sacrosanctum Concilium, 101


Língua

§1. Conforme à tradição secular do rito latino, a língua a usar no Ofício divino é o latim. O Ordinário poderá, contudo, conceder, em casos particulares, aos clérigos para quem o uso da língua latina for um impedimento grave para devidamente recitarem o Ofício, a faculdade de usarem uma tradução em vernáculo, composta segundo a norma do art. 36.
§2. O Superior competente pode conceder às Monjas, como também aos membros dos Institutos de perfeição, não clérigos ou mulheres, o uso do vernáculo no Ofício divino, mesmo na celebração coral, desde que a versão seja aprovada.
§3. Cumprem a sua obrigação de rezar o Ofício divino os clérigos que o recitem em vernáculo com a assembleia dos fiéis ou com aqueles a que se refere o § 2, desde que a tradução seja aprovada.

Sacrosanctum Concilium, 101


日課的語言

一、按照拉丁禮多世紀的傳統,為聖職人員仍應保存拉丁文日課,但為那 些不能用拉丁文妥善履行日課的聖職人員,當權人可以在個別情形下,准予使用按第 節的規定,所作的本地語言的譯文。
二、主管上司可以准許,隱修會修女、其他修會的非聖職人員的會土或修女,在履行日課時,甚至在誦經團內,使用本地語言,只要譯文是經過批准的。
三、任何有責任念日課的聖職人貝,如果同信友會聚一起,或同上文第二項的 人士一起,用本地語言舉行日課,已經算是完成自己的任務,只要譯文是經過批准 的。

Sacrosanctum Concilium, 101


§1. Zgodnie z wiekową tradycją obrządku łacińskiego duchowni winni zachowywać w liturgii godzin język łaciński. Tym jednak duchownym, którym język łaciński stwarza poważną przeszkodę do należytego sprawowania liturgii godzin, ordynariusz może w poszczególnych przypadkach zezwolić na używanie przekładu na język ojczysty, sporządzonego według art. 36.
§2. Kompetentny przełożony może pozwolić na używanie języka ojczystego w liturgii godzin, nawet celebrowanej w chórze, mniszkom i członkom zrzeszeń dążących do doskonałości, tak mężczyznom, którzy nie są duchownymi, jak i kobietom, pod warunkiem, że posługują się zatwierdzonym przekładem.
§3. Każdy duchowny zobowiązany do liturgii godzin, jeśli celebruje ją w języku ojczystym z grupą wiernych albo z tymi, o których była mowa w §2, wypełnia swój obowiązek, byleby tekst przekładu był zatwierdzony.

Sacrosanctum Concilium, 101