“Modulamini illi psalmum novum” – Studi in onore di Alberto Turco

È uscito nelle scorse settimane, per i caratteri della Libreria Editrice Vaticana, Didattica e Saggistica, collana del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, il volume in onore del maestro don Alberto Turco, a cura di don Gilberto Sessantini: “Dialettica e paradigmi del sacro in musica”. È stato posto in esergo del libro “Modulamini illi psalmum novum” (Gd 16,1) come paradigma che sintetizza in maniera inequivocabile tutto il cammino scientifico e spirituale compiuto da don Alberto in questi sessant’anni di vita, dati al canto sacro, soprattutto al Canto Gregoriano. Scrive bene don Sessantini, uno degli allievi e collaboratori nella sua presentazione al libro: “L’incipit del cantico di Giuditta esprime in poche parole la cifra interpretativa della vita sacerdotale e dell’attività scientifica di don Alberto Turco. Innanzitutto, per il rimando semantico allo psalmum/cantum novum di agostiniana memoria, quel canto nuovo che deve contraddistinguere la vita di ogni cristiano, rendendola appunto nuova, e che troverà la sua perfetta consonanza e intonazione nella Gerusalemme nuova (cfr. Ap 5,9.21,2), ma che già qui, su questa terra e durante la vita terrena, mentre siamo in cammino, è chiamato ad espandersi verso le altezze sublimi della carità perfetta, simboleggiata dallo jubilus alleluiatico. Canto nuovo ma sempre antico, come quella sapienza ampiamente anelata dal vescovo di Ippona e dottore della Chiesa, che proprio nella ricerca costante, appassionata, ostinata e per certi aspetti ossessiva della verità si distingue tra i pensatori dell’Occidente cristiano. Così don Turco, nel suo lavoro accademico finalizzato a far emergere dagli abissi del tempo il canto antico della Chiesa per farlo risuonare nella sua ritrovata novità. In secondo luogo, quel versetto biblico, con il suo modulamini, ci ricorda per assonanza l’ambito proprio verso il quale si è indirizzata la ricerca scientifica di don Turco alla quale è stato iniziato dalle intuizioni di dom Jean Claire dell’abbazia di Solesmes, quella modalità che ormai per lui non ha più segreti, e per la quale tutti coloro che studiano più da vicino il canto proprio della Chiesa gli sono riconoscenti, oltre che debitori”.

Don Alberto Turco, sacerdote della diocesi di Verona, ha dedicato alla liturgia, alla musica sacra, allo studio e alla interpretazione del canto gregoriano la sua vita, fino ad oggi. Insigne studioso, riconosciuto a livello internazionale, ha formato generazione di musicisti allo studio scientifico del Gregoriano. Per anni docente, prima al Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra a Milano, poi al Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma. I suoi studi scientifici, col passare degli anni, si sono concretizzati nella pubblicazione di diversi manuali di teoria del gregoriano, cercando di divulgare il più possibile l’inestimabile valore di questo canto, considerato dalla Chiesa il proprio canto ufficiale. Possiamo dire di più: il gregoriano è diventato, per lui, uno stile di vita, di pensiero, una espressione profonda della sua fede e del suo sacerdozio.

L’attività scientifica di don Alberto ha come punto di riferimento ineludibile Solesmes (F), dove non è mai stato un ospite qualsiasi, un ospite di passaggio. Proprio in questa Abbazia francese, ha imparato ad amare, vivere il gregoriano; sviscerando manoscritti, libri, postille, “pizzini” tra monaci studiosi, commenti. Nell’Atelier di paleografia ha potuto respirare l’antica tradizione che ha portato il gregoriano fino ai nostri giorni. Instancabile lavoratore, don Alberto, continua a “sfornare” progetti, proposte, lavori; il suo punto fisso è che nulla Questa pubblicazione vuole onorare lo studioso, colui che ha formato tanti musicisti indirizzandoli ad un approccio scientifico, leale, veritiero della musica sacra. Si apre con due studi dedicati al canto gregoriano, che documentano la complessità di questa materia nel campo della restituzione melodica, ancora oggi, fonte di visioni tante volte personali e poco argomentate con studi appropriati. In questi due articoli si scorge il metodo di lavoro insegnato dal prof. Turco: un approccio unitario, non legato solamente ad esperienze circoscritte ad un determinato territorio o regione, ma una convergenza più amplia di varie fonti manoscritte, supportata da altre discipline del canto gregoriano come la modalità, la semiologia, l’estetica e lo studio delle varie formule che compongono ogni singolo brano. Il volume prosegue proponendo studi molto interessanti che spaziano dalle prime forme di polifonia, all’alternatim organo gregoriano; allo studio di codici medievali e strumenti musicali capaci di introdurre l’animo umano alla spiritualità della musica. Infine un’appendice che raccoglie la bibliografia, la discografia e le tesi discusse sotto la direzione del maestro Turco. Tutto questo a dimostrazione dell’instancabile lavoro di colui che in queste pagine vogliamo ricordare con stima e gratitudine.

Per quanto riguarda il suo rapporto con la diocesi di Verona si è espresso principalmente nella sua ininterrotta presenza, dal 1965 fino al 2017 (per cinquantadue anni), in Cattedrale come Direttore della Cappella musicale del Duomo, nonostante gli impegni artistici e scientifici lo abbiano spesso richiamato fuori dall’ ambito diocesano. Caro don Alberto, vogliamo concludere queste brevi righe citando il salmo 91 al versetto 15 “Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore: mia roccia, in lui non c’è ingiustizia”.

Ad multos annos, magister.

La Redazione di “Vox Gregoriana”

Walter Brandmüller: Nazionalismo liturgico o Universalismo?

La comprensione vera, complessiva della liturgia – e ciò vale anche per la realtà in assoluto – non è solo un processo intellettuale. La persona, in fondo, non è fatta solo di ragione e volontà, ma anche di corpo e sensi. Quindi, se di una liturgia celebrata in un linguaggio sacrale non si comprende ogni singolo testo – escludendo naturalmente le letture bibliche e l’omelia –, comunque l’intero evento, il canto, le suppellettili, i paramenti e il luogo sacro, ogni qual volta danno adeguata espressione alla celebrazione, toccano in modo molto più diretto la dimensione profonda dell’uomo di quanto possano fare le parole comprensibili. Oggi ciò è molto più semplice [rispetto al passato], poiché chi assiste alla messa conosce già la struttura del rito e i testi che ricorrono nella liturgia, perciò quando partecipa a una messa in latino sa abbastanza di che cosa si tratta.

Che il latino debba essere respinto come lingua liturgica perché non viene compreso non è quindi un’argomentazione convincente, tanto più che, malgrado tutte le difficoltà relative alla traduzione, la liturgia in lingua volgare non deve essere abolita. Solo che, come dice il concilio Vaticano II, non dovrebbe essere abolito nemmeno il latino.

Qual è invece la situazione della “participatio actuosa”, ossia della partecipazione attiva dei fedeli alla celebrazione liturgica? Il Concilio prescrive che il fedeli devono essere in grado di cantare o recitare le parti che spettano loro anche in lingua latina. È una richiesta eccessiva? Se si pensa a quanto sono familiari le parole dei testi dell’ordinario della messa, non dovrebbe essere difficile riconoscerli dietro le parole latine. E quante canzoni inglesi o americane vengono cantate e comprese volentieri nonostante siano in una lingua straniera?

In fondo, “participatio actuosa” significa molto di più che un mero parlare e cantare insieme: è piuttosto il fare propria, da parte del cristiano che partecipa alla funzione, la stessa disposizione intima del sacrificio al Padre, nella quale Cristo compie il suo dono di sé al Padre. E per questo serve in prima linea quella che Johann Michael Sailer ha definito lingua fondamentale della messa.

Il messale latino sotto questo aspetto è necessario anche dal punto di vista pratico: il sacerdote che si reca in paesi dei quali non conosce la lingua dovrebbe avere la possibilità di celebrare anche lì la santa messa, senza essere costretto ad acrobazie linguistiche indegne di una liturgia.

In breve: al messale romano in latino bisogna augurare di poter essere presente in ogni chiesa.

Traduzione tratta da qui.
Testo originale tedesco qui o qui (pagg. 192-196)

La celebrazione «versus populum» dal punto di vista liturgico e sociologico

Nei suoi «Suggerimenti per l’allestimento della Casa di Dio nello spirito della Liturgia Romana» del 1949, T. Klauser osservava: «Alcuni indizi lasciano presagire che nella Casa di Dio del futuro il sacerdote tornerà a celebrare come un tempo, dietro l’altare e col viso rivolto al popolo, secondo quanto avviene ancor oggi nelle antiche basiliche romane. Il desiderio ovunque sentito, di dare maggiore risalto al concetto di “mensa eucaristica comunitaria”, sembra esigere questa soluzione» (n. 8).

Quello che Klauser chiamava desiderio è diventato una norma applicata su vasta scala. Si crede di avere rinnovato una usanza risalente ai primi tempi cristiani: come vedremo, è invece dimostrabile che nella Chiesa Orientale e nella Occidentale non si è mai celebrato «versus populum», ma ci si è vòlti a oriente nella Preghiera.

Che il celebrante debba rivolgere il viso al popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero. A quanto risulta, però, egli non avrebbe mai personalmente seguito questa regola, peraltro adottata soltanto da alcune sette protestanti, specie riformate. Solo ai nostri giorni la celebrazione «versus populum» è divenuta pressoché generale nella Chiesa Romana; le Chiese Orientali e la maggior parte delle comunità evangeliche si attengono alla prassi tradizionale.

Nella Chiesa Orientale, la celebrazione «versus populum» non è mai stata in uso, tant’è che vi manca sin la designazione equivalente. La parte anteriore dell’altare è oggetto della massima reverenza. Vi può stare soltanto il sacerdote celebrante e, discosto da lui, il diacono. Al di là della iconòstasi, nel santuario, solo il celebrante può passare dalla parte anteriore dell’altare. Nella concelebrazione – la quale, come è noto, ha una lunga tradizione nella Chiesa d’Oriente – il primo sacerdote è colui che volge le spalle alla navata centrale, come nelle altre occasioni, mentre i concelebranti si collocano alla sua sinistra e alla sua destra, lungo i lati dell’altare contigui al suo; mai devono disporsi lungo il lato posteriore (orientale) dell’altare.

L’usanza di celebrare verso il popolo è invalsa da noi negli anni Venti, nell’àmbito dei movimenti giovanili, allorché si prese a celebrare l’Eucaristia per gruppi particolari e ristretti. Anche il «movimento liturgico», soprattutto con Pius Parsch, contribuì a diffondere questa usanza. Come abbiamo detto, si credeva di rinnovare una tradizione dei primi cristiani. Si era visto che in alcune antiche basiliche romane, l’altare era orientato «versus populum». A quanto sembra, però, non si era osservato che in queste tali basiliche, a differenza che nelle altre chiese, non già l’abside, ma l’ingresso è situato a oriente.

Nella Chiesa primitiva e durante il Medioevo, fu norma rivolgersi a oriente durante la preghiera. Dice sant’Agostino: «Quando ci alziamo in piedi per la Preghiera, ci volgiamo a oriente, da dove s’innalza il cielo, non come se ivi soltanto fosse Dio, e avesse abbandonato le altre parti del mondo (…), ma perché lo spirito si innalzi a una natura superiore, ossia a Dio».

Queste parole del Padre africano mostrano che i cristiani, dopo l’omelia, si alzavano per la Preghiera successiva e si volgevano a oriente. A quest’atto allude sempre Agostino concludendo le sue omelie con la formula fissa «conversi ad Dominum» (rivolti al Signore).

Il Dölger, nel suo fondamentale Sol Salutis, ritiene che anche la risposta del popolo «Habemus ad Dominum», all’invito del celebrante «Sursum corda», implichi l’essere rivolti a oriente, tanto più che alcune Liturgie orientali esigono che ciò effettivamente sia, dopo l’invito del diacono.

Ciò vale per la Liturgia Copta di Basilio, dove all’inizio dell’Anafora si dice: «Venite, uomini, state in adorazione e guardate a oriente», e per la Liturgia Egiziana di Marco, dove un analogo invito – «Guardate a oriente» – viene dato nel corso della Preghiera Eucaristica, ossia prima del Sanctus. Nella breve esposizione del rituale liturgico contenuta nel l. II delle Costituzioni Apostoliche (fine del sec. IV), è prescritto di alzarsi in piedi per la Preghiera e di volgersi a oriente. Nel l. VIII viene riportato un equivalente invito del diacono: «State in piedi rivolti al Signore». Nella Chiesa primitiva, pertanto, volgersi al Signore e guardare a oriente erano la stessa cosa.

L’usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima, come il Dölger ha dimostrato e comune a ebrei e gentili. I cristiani l’adottarono di buona ora. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum (cap. XVI), egli riferisce che i cristiani «pregano nella direzione in cui sorge il sole». Nel sole sorgente si ravvisava un simbolo del Signore che è asceso al Cielo e che dal Cielo ritornerà. Affinché i raggi del sole sorgente potessero penetrare all’interno della chiesa durante la Messa, nei secc. IV e V, a Roma e altrove, l’ingresso fu posto a oriente. Durante la preghiera le porte dovevano essere lasciate aperte e la preghiera doveva avvenire necessariamente in direzione delle porte. Come già accennato, in questi casi il celebrante stava dietro l’altare, in modo da potere, al momento del Sacrificio, volgere lo sguardo a oriente. A differenza però di quanto si potrebbe supporre, la sua non era una celebrazione «versus populum» perché anche i fedeli durante la Prece si volgevano a oriente. Durante la celebrazione dell’Eucaristia, nemmeno nelle basiliche menzionate il sacerdote e il popolo stavano di faccia. I fedeli – gli uomini separati dalle donne – prendevano posto nelle navate laterali, e di regola tra le colonne venivano appese delle cortine. La navata centrale serviva per l’ingresso solenne del celebrante e degli assistenti, mentre una parte di essa era riservata al coro.

Ma anche nell’ipotesi che nelle più antiche basiliche romane i fedeli non si volgessero verso l’ingresso, cioè a oriente, ma rimanessero vòlti verso l’altare, celebrante e fedeli non sarebbero stati a faccia a faccia. Durante la Prece Eucaristica, infatti, l’altare veniva occultato da cortine. Queste, come testimonia san Giovanni Crisostomo, venivano riaperte soltanto per la successiva litania recitata dal diacono. I fedeli, perciò, nelle basiliche in cui l’ingresso e non l’abside era situato a oriente, se non guardavano l’altare, nemmeno voltavano ad esso le spalle: cosa inammissibile, data la santità dell’altare stesso. Poiché erano nelle navate laterali, avevano l’altare rispettivamente alla loro destra o alla loro sinistra, e formavano un semicerchio aperto a oriente col celebrante e gli assistenti all’incrocio del transetto con l’asse longitudinale della chiesa.

Nelle chiese con l’abside a oriente tutto dipendeva da come si disponevano i fedeli. Se formavano un ampio semicerchio davanti all’altare situato nella parte absidale della chiesa o presbiterio, anche in questo caso il semicerchio era aperto a oriente; il celebrante non era più all’incrocio dei bracci, bensì nel punto focale, più lontano dai fedeli.

Nel Medioevo, invece, quasi ovunque i fedeli prendono posto nella navata centrale, mentre le navate laterali servono per la processione d’ingresso. In tal modo, dietro al celebrante si snoda il viaggio del popolo di Dio verso la Terra Promessa. Meta del viaggio è l’oriente: là è il Paradiso, perduto, a cui l’uomo agogna di tornare (cf. Gen. 2.8). Testa di questa teoria sono il celebrante e i suoi assistenti.

In contrasto con la dinamica del viaggio, il semicerchio aperto attua un principio statico durante la Preghiera: l’attesa del Signore che, asceso in Cielo a oriente (cf. Ps. 67.34), da oriente ritornerà (cf. Atti 1.11). Qui, la disposizione a semicerchio aperto è dunque, per così dire, naturale. Quando si aspetta un’alta personalità, si apre un varco e si forma un semicerchio per ricevere nel mezzo la persona attesa.

Analogo pensiero esprime san Giovanni Damasceno (De Fide orthod. IV, 12): «Nella sua ascensione al cielo, Egli si levò verso oriente. Così Lo adorarono gli Apostoli, e ritornerà come essi Lo videro andare verso il cielo. Dice infatti il Signore: “Come il lampo parte da oriente e illumina fino a occidente, tale sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo”. Poiché l’aspettiamo, adoriamo rivolti a oriente. Degli Apostoli, questa è una tradizione non scritta».

Come osserva il Nussbaum, ormai l’uomo moderno più non sente il significato della preghiera a oriente; per lui il sole sorgente non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo antico. Questo è vero, ma ben altra cosa è che, durante la Preghiera, tanto il celebrante quanto il popolo guardino a Dio nella medesima direzione! Che tutti i fedeli, secondo la parola di sant’Agostino citata più sopra, debbano essere «conversi ad Dominum», è un principio di valore permanente, ancor oggi e sempre pregno di significato. Si tratta di «guardare verso il luogo del Signore», come dice il Kunstmann.

Veniamo ora all’aspetto sociologico della celebrazione «versus populum». Nel suo La Liturgia come Offerta, il sociologo W. Siebel afferma che la posizione del celebrante «versus populum» può essere considerata «simbolica del nuovo spirito che anima la Liturgia». Più avanti egli sostiene: «La vecchia consuetudine evidenziava nel sacerdote la guida e il rappresentante della comunità che, in luogo e a nome della comunità stessa, parlava a Dio come Mosè sul Sinai. La comunità sembrava mandare un’ambasciata (preghiera, adorazione, sacrificio); il sacerdote sembrava il latore della stessa; Dio, colui che la riceveva».

Nel nuovo Rito, prosegue il Siebel, il sacerdote «non figura tanto come il rappresentante della comunità, quanto come un attore che, al centro della Messa, recita il ruolo del Cristo – non diversamente da quanto avviene a Oberammergau o in altre sacre rappresentazioni del Mistero pasquale». E conclude: «Ma se col nuovo Rito il sacerdote si trasforma in un attore che deve impersonare il Cristo sulla scena, allora occorre dire che talvolta, in questa teatrale riproduzione della Cena, la identificazione del sacerdote col Cristo risulta insopportabile».

La disponibilità con cui la stragrande maggioranza dei sacerdoti ha accettato la celebrazione «versus populum» viene motivata dal Siebel in questi termini: «La crescente solitudine e insicurezza del sacerdote lo inducevano naturalmente a ricercare nuovi sostegni comportamentali. Tra questi, il sostegno emotivo, fornito al sacerdote dalla comunità che egli ha davanti a sé nella celebrazione. Qui però nasce subito un nuovo condizionamento: la dipendenza dell’attore dal pubblico».

In Manifestazioni adolescenziali nella Chiesa cattolica, K.G. Rey scrive: «Mentre prima il sacerdote – come anonimo intermediario, come primo nella comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in rappresentanza di tutti e insieme con tutti, con le preghiere prescritte – offriva il Santo Sacrificio, oggi egli ci sta davanti come uomo, con le sue caratteristiche personali, il suo personale stile di vita e col viso rivolto a noi. Per molti sacerdoti ciò comporta, a ogni Messa, un calarsi in una situazione che esige che essi facciano violenza al loro raccoglimento e alla loro modestia. Ma non mancano – tutt’altro! – i preti che sanno volgere la situazione a loro favore: in alcuni casi, con una certa raffinatezza; in altri, con nessuna. Il loro modo di muoversi e di gestire, il loro atteggiarsi, tutto il loro comportamento, si traducono in un suggestivo attirare l’attenzione sulla propria persona. Alcuni non sanno esimersi dal fare continui commenti ed esortazioni, nonché dal rivolgere al momento del congedo saluti e discorsetti personali (…) Dall’effetto che ha la loro suggestione, traggono la misura del loro potere, quindi la norma della loro sicurezza».

Quanto alla citata opinione del Klauser secondo cui, mediante la celebrazione «versus populum» verrebbe dato «maggiore risalto al concetto di “mensa eucaristica comunitaria”», osserva il Siebel: «È difficile che il fatto che l’assemblea dei fedeli sia disposta attorno alla mensa eucaristica determini un rafforzamento della coscienza comunitaria: soltanto il sacerdote è in piedi accostato alla mensa; gli altri partecipanti alla Cena stanno seduti più o meno lontano, nella parte della chiesa riservata agli spettatori». E aggiunge: «Normalmente la mensa è lontana, ed è posta su un piano più alto rispetto a quello della navata. Basta questo perché lo stretto contatto che era nel Cenacolo non sia attuabile. Il sacerdote che, rivolto verso il popolo, recita la sua parte, difficilmente evita di dare l’impressione di impersonare qualcuno che servizievolmente ha qualcosa da offrire. Per attenuare tale impressione, in alcuni luoghi l’altare è stato posto al centro della chiesa e i fedeli si dispongono attorno ad esso. In questi casi è ben visibile non solo il sacerdote: sono visibili anche i fedeli che una persona ha di fronte e di lato. Con lo spostamento dell’altare al centro dell’assemblea, in pratica si annulla la distanza che correva tra centro sacrale e comunità dei fedeli; ma quel timore reverenziale che la Presenza di Dio nella Sua Casa ispirava, diventa uno scialbo sentimento che solo vagamente si contrappone alla quotidianità».

Da un punto di vista sociologico, celebrando «versus populum» il sacerdote si trasforma in un attore, con tutta la sua dipendenza dal pubblico che ne consegue, o in un venditore che ha un’offerta speciale da proporre alla clientela. Se egli «non sa quello che fa», c’è caso che si trasformi addirittura in un istrione o in un imbonitore.

Altra cosa è l’annuncio del Vangelo. Esso presuppone un rapporto frontale tra sacerdote e popolo. Anche nelle antiche basiliche il cui ingresso è a oriente, durante la Liturgia della Parola i fedeli erano rivolti all’abside (a occidente). Nell’annunciare la Parola di Dio, inoltre, effettivamente il sacerdote si presenta ai fedeli con una offerta. Come è ovvio che durante l’omelia il sacerdote stia rivolto al popolo, così anche il lettore durante la Lezione dovrebbe stare rivolto verso i fedeli. Probabilmente per reverenza verso la Parola di Dio, prima questo non avveniva sempre e dappertutto.

Completamente diversa è, a sua volta, la Consacrazione. A questo punto la Liturgia non è più una proposta o una «offerta», ma una azione sacra tale per cui il Cielo e la terra si uniscono e il Signore scende su di noi con la Sua grazia. Lo sguardo dei fedeli, in preghiera assieme al celebrante, dev’essere perciò rivolto al Signore. Solo alla distribuzione della Comunione – la Cena Eucaristica propriamente detta – il sacerdote e i comunicandi vengono a trovarsi di nuovo faccia a faccia. Sono proprio le diverse posizioni del celebrante rispetto all’altare a rivestire, durante la S. Messa, una non lieve importanza simbolica e sociologica. Come orante e come sacrificatore, egli ha, insieme coi fedeli, il viso rivolto a Dio, mentre come annunciatore della Parola di Dio e come distributore dell’Eucaristia lo ha rivolto al popolo. Questo era il principio che vigeva nella Chiesa – in Oriente come in Occidente, nella Chiesa primitiva come in epoca barocca. Solo ai nostri giorni nella Chiesa Romana esso è stato mutato, per motivi di ordine soprattutto teologico, ma sulla base di una interpretazione antiquaria che, nonché falsa, è dimostrabilmente errata.

Da Klaus Gamber, Die Reform der Römischer Liturgie. Vorgeschichte und Problematik (1979).

PDF qui.

Latinorum latinorum…

Dal blog di A. M. Valli:

Bisogna intendersi su che cosa si intende per “capire”. La gran parte delle persone che vanno alle Messe in lingua vernacolare probabilmente non afferra pienamente i concetti delle lettere di san Paolo o del canone romano, perché sono concetti che esprimono un’alta teologia, ma nessuno direbbe che queste persone “non partecipano”. La comprensione della Messa non avviene a livello meramente semantico e intellettuale, ma a un livello molto più profondo.
Numerose religioni hanno una lingua che riservano al culto, separata dall’uso quotidiano. In questo senso va compreso anche l’uso del latino nella liturgia.

(…)

Alla liturgia non si partecipa in primis per “capire”, ma per fare esperienza di Dio partecipando al Sacrificio di Nostro Signore. Per l’istruzione cattolica esiste il catechismo, esistono libri e conferenze, esiste la buona stampa. La Messa non ha uno scopo principalmente di istruzione: questa è solo una parte della sua funzione. Ricordiamo che con la Messa in latino di prima del Concilio tantissime persone, umili e semplici, si sono fatte sante. Se il latino fosse stato un impedimento, come spiegare la santità di persone magari culturalmente ignoranti ma ricche di una sapienza che attingevano anche dalle fonti della liturgia?

(…)

Il latino per molti non è tanto un fatto linguistico, ma un’esperienza con la Tradizione della Chiesa, un’esperienza che ha riportato e continua a riportare tanti a inginocchiarsi davanti a Dio.

(Aurelio Porfiri)

Prima Missa in Louisiana

From newliturgicalmovement.org:

Fr Thomas Kennedy of the diocese of Alexandria, Louisiana, who was ordained to the priesthood on Saturday, May 22 2021, by Bishop Robert Marshall at the cathedral of Saint Francis Xavier in Alexandria, celebrated his first Solemn Mass the next day at the basilica of the Immaculate Conception in Natchitoches. The Mass was in the Ordinary Form (Novus Ordo), celebrated ad orientem in Latin and English, and you can see from these photos, very much within the spirit of the Catholic liturgical tradition.

Da newliturgicalmovement.org:

Don Thomas Kennedy della diocesi di Alexandria, Louisiana (USA), che è stato ordinato prete sabato 22 maggio 2021 dal vescovo Robert Marshall nella cattedrale di San Francesco Saverio in Alexandria, ha celebrato la sua prima Messa solenne il giorno successivo nella basilica dell’Immacolata Concezione in Natchitoches. La Messa era nella forma Ordinaria (Novus Ordo), celebrata ad orientem in latino e inglese, e come si può vedere da queste immagini, molto nello spirito della tradizione liturgica cattolica.

St Mary’s Catholic Church, Greenville SC

864.271.8422
111 Hampton Avenue
Greenville, SC 29601

Since 2008 Mass at Saint Mary’s Church has been celebrated with the priest standing on the same side of the altar as the congregation during the Eucharistic Prayer, a custom not widely seen today in the Catholic Church except for in the celebration of the Extraordinary Form of the Roman Rite, commonly called the Tridentine Mass. This custom of priest and people standing together on the same side of the altar is called praying towards the East or ad orientem, and at Saint Mary’s even the Ordinary Form of the Roman Rite – the Mass of the Second Vatican Council – is celebrated ad orientem. Here’s why.

Dal 2008, la maggior parte delle Messe nella St. Mary’s Church è stata celebrata con il sacerdote in piedi sullo stesso lato dell’altare della congregazione durante la preghiera eucaristica, un’usanza non molto diffusa oggi nella Chiesa Cattolica se non nella celebrazione nella Forma Straordinaria del Rito Romano, detta comunemente Messa Tridentina. Questa usanza del sacerdote in piedi e del popolo che stanno insieme sullo stesso lato dell’altare si chiama pregare verso Oriente o ad orientem, e presso la St. Mary’s Church anche la Forma Ordinaria del Rito Romano – la Messa del Concilio Vaticano II – si celebra ad orientem. Ecco perché.