La celebrazione «versus populum» dal punto di vista liturgico e sociologico

Nei suoi «Suggerimenti per l’allestimento della Casa di Dio nello spirito della Liturgia Romana» del 1949, T. Klauser osservava: «Alcuni indizi lasciano presagire che nella Casa di Dio del futuro il sacerdote tornerà a celebrare come un tempo, dietro l’altare e col viso rivolto al popolo, secondo quanto avviene ancor oggi nelle antiche basiliche romane. Il desiderio ovunque sentito, di dare maggiore risalto al concetto di “mensa eucaristica comunitaria”, sembra esigere questa soluzione» (n. 8).

Quello che Klauser chiamava desiderio è diventato una norma applicata su vasta scala. Si crede di avere rinnovato una usanza risalente ai primi tempi cristiani: come vedremo, è invece dimostrabile che nella Chiesa Orientale e nella Occidentale non si è mai celebrato «versus populum», ma ci si è vòlti a oriente nella Preghiera.

Che il celebrante debba rivolgere il viso al popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero. A quanto risulta, però, egli non avrebbe mai personalmente seguito questa regola, peraltro adottata soltanto da alcune sette protestanti, specie riformate. Solo ai nostri giorni la celebrazione «versus populum» è divenuta pressoché generale nella Chiesa Romana; le Chiese Orientali e la maggior parte delle comunità evangeliche si attengono alla prassi tradizionale.

Nella Chiesa Orientale, la celebrazione «versus populum» non è mai stata in uso, tant’è che vi manca sin la designazione equivalente. La parte anteriore dell’altare è oggetto della massima reverenza. Vi può stare soltanto il sacerdote celebrante e, discosto da lui, il diacono. Al di là della iconòstasi, nel santuario, solo il celebrante può passare dalla parte anteriore dell’altare. Nella concelebrazione – la quale, come è noto, ha una lunga tradizione nella Chiesa d’Oriente – il primo sacerdote è colui che volge le spalle alla navata centrale, come nelle altre occasioni, mentre i concelebranti si collocano alla sua sinistra e alla sua destra, lungo i lati dell’altare contigui al suo; mai devono disporsi lungo il lato posteriore (orientale) dell’altare.

L’usanza di celebrare verso il popolo è invalsa da noi negli anni Venti, nell’àmbito dei movimenti giovanili, allorché si prese a celebrare l’Eucaristia per gruppi particolari e ristretti. Anche il «movimento liturgico», soprattutto con Pius Parsch, contribuì a diffondere questa usanza. Come abbiamo detto, si credeva di rinnovare una tradizione dei primi cristiani. Si era visto che in alcune antiche basiliche romane, l’altare era orientato «versus populum». A quanto sembra, però, non si era osservato che in queste tali basiliche, a differenza che nelle altre chiese, non già l’abside, ma l’ingresso è situato a oriente.

Nella Chiesa primitiva e durante il Medioevo, fu norma rivolgersi a oriente durante la preghiera. Dice sant’Agostino: «Quando ci alziamo in piedi per la Preghiera, ci volgiamo a oriente, da dove s’innalza il cielo, non come se ivi soltanto fosse Dio, e avesse abbandonato le altre parti del mondo (…), ma perché lo spirito si innalzi a una natura superiore, ossia a Dio».

Queste parole del Padre africano mostrano che i cristiani, dopo l’omelia, si alzavano per la Preghiera successiva e si volgevano a oriente. A quest’atto allude sempre Agostino concludendo le sue omelie con la formula fissa «conversi ad Dominum» (rivolti al Signore).

Il Dölger, nel suo fondamentale Sol Salutis, ritiene che anche la risposta del popolo «Habemus ad Dominum», all’invito del celebrante «Sursum corda», implichi l’essere rivolti a oriente, tanto più che alcune Liturgie orientali esigono che ciò effettivamente sia, dopo l’invito del diacono.

Ciò vale per la Liturgia Copta di Basilio, dove all’inizio dell’Anafora si dice: «Venite, uomini, state in adorazione e guardate a oriente», e per la Liturgia Egiziana di Marco, dove un analogo invito – «Guardate a oriente» – viene dato nel corso della Preghiera Eucaristica, ossia prima del Sanctus. Nella breve esposizione del rituale liturgico contenuta nel l. II delle Costituzioni Apostoliche (fine del sec. IV), è prescritto di alzarsi in piedi per la Preghiera e di volgersi a oriente. Nel l. VIII viene riportato un equivalente invito del diacono: «State in piedi rivolti al Signore». Nella Chiesa primitiva, pertanto, volgersi al Signore e guardare a oriente erano la stessa cosa.

L’usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima, come il Dölger ha dimostrato e comune a ebrei e gentili. I cristiani l’adottarono di buona ora. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum (cap. XVI), egli riferisce che i cristiani «pregano nella direzione in cui sorge il sole». Nel sole sorgente si ravvisava un simbolo del Signore che è asceso al Cielo e che dal Cielo ritornerà. Affinché i raggi del sole sorgente potessero penetrare all’interno della chiesa durante la Messa, nei secc. IV e V, a Roma e altrove, l’ingresso fu posto a oriente. Durante la preghiera le porte dovevano essere lasciate aperte e la preghiera doveva avvenire necessariamente in direzione delle porte. Come già accennato, in questi casi il celebrante stava dietro l’altare, in modo da potere, al momento del Sacrificio, volgere lo sguardo a oriente. A differenza però di quanto si potrebbe supporre, la sua non era una celebrazione «versus populum» perché anche i fedeli durante la Prece si volgevano a oriente. Durante la celebrazione dell’Eucaristia, nemmeno nelle basiliche menzionate il sacerdote e il popolo stavano di faccia. I fedeli – gli uomini separati dalle donne – prendevano posto nelle navate laterali, e di regola tra le colonne venivano appese delle cortine. La navata centrale serviva per l’ingresso solenne del celebrante e degli assistenti, mentre una parte di essa era riservata al coro.

Ma anche nell’ipotesi che nelle più antiche basiliche romane i fedeli non si volgessero verso l’ingresso, cioè a oriente, ma rimanessero vòlti verso l’altare, celebrante e fedeli non sarebbero stati a faccia a faccia. Durante la Prece Eucaristica, infatti, l’altare veniva occultato da cortine. Queste, come testimonia san Giovanni Crisostomo, venivano riaperte soltanto per la successiva litania recitata dal diacono. I fedeli, perciò, nelle basiliche in cui l’ingresso e non l’abside era situato a oriente, se non guardavano l’altare, nemmeno voltavano ad esso le spalle: cosa inammissibile, data la santità dell’altare stesso. Poiché erano nelle navate laterali, avevano l’altare rispettivamente alla loro destra o alla loro sinistra, e formavano un semicerchio aperto a oriente col celebrante e gli assistenti all’incrocio del transetto con l’asse longitudinale della chiesa.

Nelle chiese con l’abside a oriente tutto dipendeva da come si disponevano i fedeli. Se formavano un ampio semicerchio davanti all’altare situato nella parte absidale della chiesa o presbiterio, anche in questo caso il semicerchio era aperto a oriente; il celebrante non era più all’incrocio dei bracci, bensì nel punto focale, più lontano dai fedeli.

Nel Medioevo, invece, quasi ovunque i fedeli prendono posto nella navata centrale, mentre le navate laterali servono per la processione d’ingresso. In tal modo, dietro al celebrante si snoda il viaggio del popolo di Dio verso la Terra Promessa. Meta del viaggio è l’oriente: là è il Paradiso, perduto, a cui l’uomo agogna di tornare (cf. Gen. 2.8). Testa di questa teoria sono il celebrante e i suoi assistenti.

In contrasto con la dinamica del viaggio, il semicerchio aperto attua un principio statico durante la Preghiera: l’attesa del Signore che, asceso in Cielo a oriente (cf. Ps. 67.34), da oriente ritornerà (cf. Atti 1.11). Qui, la disposizione a semicerchio aperto è dunque, per così dire, naturale. Quando si aspetta un’alta personalità, si apre un varco e si forma un semicerchio per ricevere nel mezzo la persona attesa.

Analogo pensiero esprime san Giovanni Damasceno (De Fide orthod. IV, 12): «Nella sua ascensione al cielo, Egli si levò verso oriente. Così Lo adorarono gli Apostoli, e ritornerà come essi Lo videro andare verso il cielo. Dice infatti il Signore: “Come il lampo parte da oriente e illumina fino a occidente, tale sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo”. Poiché l’aspettiamo, adoriamo rivolti a oriente. Degli Apostoli, questa è una tradizione non scritta».

Come osserva il Nussbaum, ormai l’uomo moderno più non sente il significato della preghiera a oriente; per lui il sole sorgente non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo antico. Questo è vero, ma ben altra cosa è che, durante la Preghiera, tanto il celebrante quanto il popolo guardino a Dio nella medesima direzione! Che tutti i fedeli, secondo la parola di sant’Agostino citata più sopra, debbano essere «conversi ad Dominum», è un principio di valore permanente, ancor oggi e sempre pregno di significato. Si tratta di «guardare verso il luogo del Signore», come dice il Kunstmann.

Veniamo ora all’aspetto sociologico della celebrazione «versus populum». Nel suo La Liturgia come Offerta, il sociologo W. Siebel afferma che la posizione del celebrante «versus populum» può essere considerata «simbolica del nuovo spirito che anima la Liturgia». Più avanti egli sostiene: «La vecchia consuetudine evidenziava nel sacerdote la guida e il rappresentante della comunità che, in luogo e a nome della comunità stessa, parlava a Dio come Mosè sul Sinai. La comunità sembrava mandare un’ambasciata (preghiera, adorazione, sacrificio); il sacerdote sembrava il latore della stessa; Dio, colui che la riceveva».

Nel nuovo Rito, prosegue il Siebel, il sacerdote «non figura tanto come il rappresentante della comunità, quanto come un attore che, al centro della Messa, recita il ruolo del Cristo – non diversamente da quanto avviene a Oberammergau o in altre sacre rappresentazioni del Mistero pasquale». E conclude: «Ma se col nuovo Rito il sacerdote si trasforma in un attore che deve impersonare il Cristo sulla scena, allora occorre dire che talvolta, in questa teatrale riproduzione della Cena, la identificazione del sacerdote col Cristo risulta insopportabile».

La disponibilità con cui la stragrande maggioranza dei sacerdoti ha accettato la celebrazione «versus populum» viene motivata dal Siebel in questi termini: «La crescente solitudine e insicurezza del sacerdote lo inducevano naturalmente a ricercare nuovi sostegni comportamentali. Tra questi, il sostegno emotivo, fornito al sacerdote dalla comunità che egli ha davanti a sé nella celebrazione. Qui però nasce subito un nuovo condizionamento: la dipendenza dell’attore dal pubblico».

In Manifestazioni adolescenziali nella Chiesa cattolica, K.G. Rey scrive: «Mentre prima il sacerdote – come anonimo intermediario, come primo nella comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in rappresentanza di tutti e insieme con tutti, con le preghiere prescritte – offriva il Santo Sacrificio, oggi egli ci sta davanti come uomo, con le sue caratteristiche personali, il suo personale stile di vita e col viso rivolto a noi. Per molti sacerdoti ciò comporta, a ogni Messa, un calarsi in una situazione che esige che essi facciano violenza al loro raccoglimento e alla loro modestia. Ma non mancano – tutt’altro! – i preti che sanno volgere la situazione a loro favore: in alcuni casi, con una certa raffinatezza; in altri, con nessuna. Il loro modo di muoversi e di gestire, il loro atteggiarsi, tutto il loro comportamento, si traducono in un suggestivo attirare l’attenzione sulla propria persona. Alcuni non sanno esimersi dal fare continui commenti ed esortazioni, nonché dal rivolgere al momento del congedo saluti e discorsetti personali (…) Dall’effetto che ha la loro suggestione, traggono la misura del loro potere, quindi la norma della loro sicurezza».

Quanto alla citata opinione del Klauser secondo cui, mediante la celebrazione «versus populum» verrebbe dato «maggiore risalto al concetto di “mensa eucaristica comunitaria”», osserva il Siebel: «È difficile che il fatto che l’assemblea dei fedeli sia disposta attorno alla mensa eucaristica determini un rafforzamento della coscienza comunitaria: soltanto il sacerdote è in piedi accostato alla mensa; gli altri partecipanti alla Cena stanno seduti più o meno lontano, nella parte della chiesa riservata agli spettatori». E aggiunge: «Normalmente la mensa è lontana, ed è posta su un piano più alto rispetto a quello della navata. Basta questo perché lo stretto contatto che era nel Cenacolo non sia attuabile. Il sacerdote che, rivolto verso il popolo, recita la sua parte, difficilmente evita di dare l’impressione di impersonare qualcuno che servizievolmente ha qualcosa da offrire. Per attenuare tale impressione, in alcuni luoghi l’altare è stato posto al centro della chiesa e i fedeli si dispongono attorno ad esso. In questi casi è ben visibile non solo il sacerdote: sono visibili anche i fedeli che una persona ha di fronte e di lato. Con lo spostamento dell’altare al centro dell’assemblea, in pratica si annulla la distanza che correva tra centro sacrale e comunità dei fedeli; ma quel timore reverenziale che la Presenza di Dio nella Sua Casa ispirava, diventa uno scialbo sentimento che solo vagamente si contrappone alla quotidianità».

Da un punto di vista sociologico, celebrando «versus populum» il sacerdote si trasforma in un attore, con tutta la sua dipendenza dal pubblico che ne consegue, o in un venditore che ha un’offerta speciale da proporre alla clientela. Se egli «non sa quello che fa», c’è caso che si trasformi addirittura in un istrione o in un imbonitore.

Altra cosa è l’annuncio del Vangelo. Esso presuppone un rapporto frontale tra sacerdote e popolo. Anche nelle antiche basiliche il cui ingresso è a oriente, durante la Liturgia della Parola i fedeli erano rivolti all’abside (a occidente). Nell’annunciare la Parola di Dio, inoltre, effettivamente il sacerdote si presenta ai fedeli con una offerta. Come è ovvio che durante l’omelia il sacerdote stia rivolto al popolo, così anche il lettore durante la Lezione dovrebbe stare rivolto verso i fedeli. Probabilmente per reverenza verso la Parola di Dio, prima questo non avveniva sempre e dappertutto.

Completamente diversa è, a sua volta, la Consacrazione. A questo punto la Liturgia non è più una proposta o una «offerta», ma una azione sacra tale per cui il Cielo e la terra si uniscono e il Signore scende su di noi con la Sua grazia. Lo sguardo dei fedeli, in preghiera assieme al celebrante, dev’essere perciò rivolto al Signore. Solo alla distribuzione della Comunione – la Cena Eucaristica propriamente detta – il sacerdote e i comunicandi vengono a trovarsi di nuovo faccia a faccia. Sono proprio le diverse posizioni del celebrante rispetto all’altare a rivestire, durante la S. Messa, una non lieve importanza simbolica e sociologica. Come orante e come sacrificatore, egli ha, insieme coi fedeli, il viso rivolto a Dio, mentre come annunciatore della Parola di Dio e come distributore dell’Eucaristia lo ha rivolto al popolo. Questo era il principio che vigeva nella Chiesa – in Oriente come in Occidente, nella Chiesa primitiva come in epoca barocca. Solo ai nostri giorni nella Chiesa Romana esso è stato mutato, per motivi di ordine soprattutto teologico, ma sulla base di una interpretazione antiquaria che, nonché falsa, è dimostrabilmente errata.

Da Klaus Gamber, Die Reform der Römischer Liturgie. Vorgeschichte und Problematik (1979).

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