L’orientamento dell’altare – mons. Nicola Bux

L’orientamento “verso il popolo” che ha favorito la cosiddetta circolarità nella comunità, non è di tradizione cattolica, nemmeno ortodossa, ma protestante; tantomeno può essere ritenuto un modello classico: in quale liturgia occidentale o orientale si trova? Non è un ritorno alle origini. La ritrovata sensibilità per il simbolismo liturgico, dovrebbe indurre committenti e architetti a valorizzare il rivolgersi del sacerdote a oriente, simbolo cosmico del Signore che viene nella liturgia: dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (cfr. Giovanni 17, 1). Perché guardarsi reciprocamente, se come popolo di Dio siamo tutti in cammino verso il Signore che viene a visitarci dall’alto? È così che la Chiesa ha espresso la vera forma della messa, dell’eucaristia pignus futurae gloriae (anticipo della gloria futura), perché sulla terra la salvezza è incompleta. Invece, presentare la celebrazione “verso il popolo”, come orientamento verso il corpo sacramentale del Signore, significa che l’atteggiamento della preghiera riguarda solo il prete, reintroducendo così la differenza/separazione tra clero e popolo; ciò inoltre è contraddetto dal decentramento del tabernacolo dove il corpo sacramentale è permanentemente presente.
La croce posta sull’altare da papa Benedetto XVI perché sia guardata da celebrante e fedeli, è un rimedio che rimanda all’antico uso della croce nell’abside orientata a est. Non sostengono i liturgisti che la riforma liturgica ha reintrodotto usi antichi? Ora, si è riacceso il dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghiera liturgica, anche perché non si è mai spento. Chi studia la storia e la teologia della liturgia dovrebbe avere l’onestà intellettuale di considerare le critiche fondate che teologi e periti conciliari come Josef Jungmann, Louis Bouyer, Joseph Ratzinger e recentemente Uwe Michael Lang, hanno mosso alla celebrazione “verso il popolo”. Ratzinger scrisse: «È di assoluta importanza poter guardare il sacerdote in viso, o non potrebbe spesso essere benefico riflettere che anche lui è un cristiano e che ha ogni ragione per volgersi verso Dio con tutti gli altri confratelli cristiani della congregazione e recitare con loro il Padre Nostro?». Ancora: «La ricerca storica ha reso la controversia meno faziosa, e fra i fedeli cresce sempre più la sensazione dei problemi che riguardano una disposizione che difficilmente mostra come la liturgia sia aperta a ciò che sta sopra di noi e al mondo che verrà»
La Sacrosanctum Concilium non parla di celebrazione “verso il popolo”. L’istruzione Inter oecumenici, preparata dal Consilium per l’applicazione della costituzione sulla sacra liturgia, ed emanata il 26 settembre 1964, si riferisce alla progettazione di nuove chiese e altari quando recita: «Nella chiesa vi sia di norma l’altare fisso e dedicato, costruito ad una certa distanza dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo» (91). Una possibilità dunque per le chiese nuove, non un obbligo o una prescrizione. Sappiamo poi con quanta foga degna di miglior causa siano stati abbattuti gli altari rivolti ad orientem, cioè al Signore Oriens, splendor lucis aeternae, cercando in modo surrettizio di spiegare che erano “di spalle al popolo”. Chi ci ha fatto accorgere che erano tali? L’altare è per il Signore e il sacerdote è rivolto all’altare del Signore.
Quindi, il mutamento di orientamento non è stato approvato nell’aula conciliare ma introdotto da istruzioni postconciliari, presentato come possibilità e non obbligatorio. Il cardinale presidente del Consilium, Giacomo Lercaro, scrisse ai presidenti delle conferenze episcopali: «Per una liturgia vera e partecipe, non è indispensabile che l’altare sia rivolto “verso il popolo”: nella messa, l’intera liturgia della parola viene celebrata dal seggio, dall’ambone o dal leggio, quindi rivolti verso l’assemblea; per quanto riguarda la liturgia eucaristica, i sistemi di altoparlanti rendono la partecipazione abbastanza possibile». A parte l’esigenza di tutelare gli altari quali beni artistici e architettonici. Lercaro non era un tradizionalista, eppure la sua osservazione è caduta nel vuoto. Un pensiero non cattolico, per dirla con Paolo VI, vedeva nel mutamento della posizione del sacerdote il simbolo del cosiddetto spirito del concilio e di una presunta nuova ecclesiologia. Di fatto si scatenò un’euforia che portò a distruggere grandi opere d’arte e a sostituirle con tavoli. Dom Prosper Guéranger aveva osservato: «Il protestantesimo ha distrutto la religione abolendo il sacrificio, per esso l’altare non esiste più; non c’è più che una tavola: il suo cristianesimo si è conservato unicamente nel pulpito. La Chiesa cattolica, senza dubbio, si gloria della cattedra di verità, poiché “la fede viene dall’ascolto” (Romani 10, 17)».
Nel messale di Paolo VI, editio typica III del 2002, le rubriche dell’Orate fratres, del Pax Domini, dell’Ecce Agnus Dei e dei riti conclusivi, recitano ancora: «il sacerdote rivolto al popolo…»: vuol dire che in precedenza il celebrante si trova rivolto nella stessa direzione, ovvero verso l’altare; poi, alla comunione del celebrante la rubrica è: «il sacerdote rivolto all’altare…»: a che servirebbe dirlo qui, se egli fosse già dietro l’altare e di fronte al popolo? Dunque, l’altare può essere rivolto solo al Signore, mentre il sacerdote nella messa si rivolge in prevalenza all’altare e, quando è previsto, al popolo. Nella liturgia orientale è il diacono che fa da tramite tra l’altare e il popolo.
Tralascio le conferme a tale interpretazione da parte della Congregazione per il culto divino o le sottili disquisizioni in non poche recensioni dell’ordinamento generale del messale, per far dire ai testi ciò che non dicono. La tradizione cristiana d’oriente e d’occidente, prevede la direzione comune del sacerdote e dei fedeli nella preghiera liturgica; quella “verso il popolo” è in rottura con essa.
Allora, rivolgersi a Dio o al popolo? Il vero significato del rivolgersi al popolo da parte del sacerdote quando è all’altare, viene dall’essere stato sin dall’inizio della messa rivolto al Signore. A Bari, nella basilica di San Nicola, l’architrave del ciborio porta l’iscrizione latina rivolta al celebrante che sale all’altare: Arx haec par coelis, intra bone serve fidelis, ora devote Deum pro te populoque (Questa rocca è simile al cielo, entra servo buono e fedele, prega devotamente per te e per il popolo). Fa da contrappunto l’invito inciso sul primo dei gradini ancora al celebrante: sis humilis in ascensu, ecc. (sii umile mentre sali…). Al popolo il sacerdote si rivolge per comunicargli qualcosa da parte del Signore: come potrebbe se prima non è stato rivolto ad Dominum? È la verità del segno! Oriente docet.
Dunque non si tratta di essere unilaterali e non tener conto delle tesi contrarie, ma di verificare cosa sia essenziale per tenere insieme la tradizione e ri-orientare la preghiera distratta dei più. Rinunceremo a tale importante simbolo affinché sacerdote e assemblea nella preghiera eucaristica siano rivolti al Signore? Chi lo nega sostiene che la funzione dell’altare verrebbe a perdere la sua visibilità e centralità sia come luogo d’incontro del sacerdote con i fedeli, sia come mensa eucaristica con i segni di pane e vino che richiamano i gesti dell’ultima cena, compiuti oggi dal sacerdote, restando totalmente invisibili. Ma l’altare è il luogo d’incontro del sacerdote col Signore: solo lui può salirvi per esercitare la funzione sacerdotale; poi, il pane e il vino consacrati sono visibili al momento dell’elevazione, proprio in base al per ritus et preces, con cui viene massimamente presentato il mistero! L’orientamento esterno esprime l’atteggiamento che tutti i fedeli sono chiamati ad assumere nella preghiera eucaristica di fronte al mistero celebrato.
Chi aveva teorizzato la nuova posizione verso il popolo, è stato Martin Lutero che, nel suo opuscolo Messa tedesca e ordinamento del culto divino del 1526, sosteneva che così ha fatto Cristo nell’ultima cena. Egli aveva davanti agli occhi le rappresentazioni pittoriche dell’ultima cena comuni ai suoi tempi, come l’affresco di Leonardo da Vinci, ma queste non corrispondono agli usi conviviali del tempo di Gesù, quando i commensali sedevano o giacevano all’emiciclo posteriore del tavolo rotondo o a forma di sigma, e il posto d’onore era al lato destro, come si nota nelle più antiche raffigurazioni. Anche quando, dal XIII secolo, il posto di Gesù è al lato posteriore del tavolo in mezzo agli apostoli, non si può nemmeno parlare di celebrazione “verso il popolo”, perché il popolo nel cenacolo non c’era.
Qual è la posta in gioco dell’orientamento del sacerdote all’altare? Se si pensa che la preghiera o il sacrificio si rivolge e si offre sempre a Dio volgendo lo sguardo a oriente, è in gioco l’idea di messa come adorazione e sacrificio. Seguendo Lutero, molti teologi e liturgisti cattolici negano o attenuano il carattere sacrificale della messa, preferendo quello conviviale. Eppure lo “spezzare il pane” (fractio panis) nel giorno del Signore, primitivo nome della messa, viene espressamente indicato come un sacrificio dalla Didaché (14, 2), testo cristiano dei primi secoli; ora, il carattere sacrificale della messa è ben evidenziato dal volgersi tutti insieme col sacerdote “verso oriente” o la croce dall’inizio della preghiera eucaristica, rispondendo che i nostri cuori “sono rivolti al Signore”. Il fatto che la messa sia anche convito, in specie per quanti sono nelle condizioni di accostarsi, stanno a sottolinearlo i riti di comunione.
Non prescrive l’Ordo Romanus I del VII secolo che al Gloria il Pontefice stando al trono si rivolga a est? Oggi, non usano al vangelo i concelebranti rivolgersi verso l’ambone e alla preghiera eucaristica verso l’altare? Sono indizio dell’esigenza che ha la preghiera di orientarsi alla ricerca del volto di Gesù Cristo, che ci parla e ci guarda dalla croce: anche per questo deve essere al centro.
La riforma promossa dal concilio Vaticano II comincia dalla presenza del sacro nei cuori, dal suo recupero nella realtà della liturgia e del suo mistero, che eccede ogni spazio interiore ed esteriore, contemperando le esigenze di stabilità e di rinnovamento; ciò è visibile specialmente da tre cose: la posizione del sacerdote all’altare, il posto del silenzio sacro e la partecipazione dei fedeli.

Nicola Bux, Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme 2010, pagg. 22-28.