La bellezza materiale e concretissima della liturgia

La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come “lo stesso autore della bellezza” (Sapienza, 13, 3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria ontologica, anzi teologica.

San Bonaventura è stato il primo teologo francescano a includere la bellezza tra le proprietà trascendentali, insieme all’essere, alla verità e alla bontà. I teologi domenicani sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino, pur non annoverando la bellezza fra i trascendentali, intraprendono un simile discorso nei loro commentari sul trattato pseudo-dionisiano De divinis nominibus, dove emerge l’universalità della bellezza, la cui prima causa è Dio stesso.

Nella condizione della modernità, ciò che è contestato è proprio la dimensione trascendente della bellezza, commutabile con la verità e la bontà. La bellezza è stata privata del suo valore ontologico ed è stata ridotta a un’esperienza estetica, addirittura a un mero “sentimento”. Le conseguenze di questa svolta soggettivista si sentono non solo nel mondo dell’arte. Piuttosto, insieme con la perdita della bellezza come trascendentale, si è persa anche l’evidenza della bontà e della verità. Il bene è privo dalla sua forza di attrazione, come il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar ha rilevato con esemplare chiarezza nel suo opus magnum sull’estetica teologica Herrlichkeit (La gloria del Signore).

Certamente la tradizione cristiana conosce anche un falso tipo di bellezza che non innalza verso Dio e il suo Regno, ma invece trascina lontano dalla verità e bontà e suscita desideri disordinati. Il libro della Genesi rende chiaro che è stata una falsa bellezza a portare al peccato originale. Visto che il frutto dell’albero in mezzo al giardino era un vero piacere per gli occhi (Genesi, 3, 6), la tentazione del serpente provoca Adamo ed Eva alla ribellione contro Dio.

Il dramma della caduta dei progenitori fa da sfondo a un passo, ne I Fratelli Karamazov (1880) dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), dove Mitia Karamazov, uno dei protagonisti del romanzo, dice: “La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”.

Lo stesso Dostoevskij nel suo romanzo L’idiota (1869) mette sulla bocca del suo eroe, il principe Mishkin, le famose parole: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Dostoevskij non intende qualsiasi bellezza, anzi, si riferisce alla bellezza redentrice di Cristo.

Nel suo messaggio magistrale per il Meeting di Rimini nel 2002, l’allora cardinale Joseph Ratzinger rifletteva su questo famoso detto di Dostoevskij, trattando l’argomento dalla prospettiva biblico-patristica. Come punto di partenza, egli si serve del salmo 44, letto nella tradizione ecclesiale “come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa”. In Cristo, “il più bello tra gli uomini”, appare la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso.

Nell’esegesi di questo salmo, i Padri della Chiesa, come sant’Agostino e san Gregorio di Nissa, accoglievano anche gli elementi più nobili della filosofia greca del bello, mediante la lettura dei platonici, ma non li ripetevano semplicemente, poiché con la rivelazione cristiana è entrato un nuovo fatto: è lo stesso Cristo, “il più bello tra gli uomini”, al quale la Chiesa, ricordandolo come sofferente, attribuisce anche la profezia di Isaia (53, 2 ) “non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore”.

Nella passione di Cristo si incontra una bellezza che va al di là di quella esteriore e si apprende “che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e (…) anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo”, come accenna l’allora cardinale Ratzinger.

Perciò, ha parlato di una “paradossale bellezza”, pur notando che il paradosso “è una contrapposizione, ma non una contraddizione”, quindi è nella totalità che si rivela la bellezza di Cristo, quando contempliamo l’immagine del Salvatore crocifisso, che mostra il suo “amore sino alla fine” (Giovanni, 13, 1).

La bellezza redentrice di Cristo si riflette soprattutto nei santi di ogni epoca, ma anche nelle opere d’arte che la fede ha generate: esse hanno la capacità di purificare e di sollevare i nostri cuori e, così, di portarci al di là di noi stessi verso Dio, che è la Bellezza stessa. Il teologo Joseph Ratzinger è convinto che questo incontro con la bellezza “che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi” sia “la vera apologia della fede cristiana”.

Da Papa, ha ribadito questi suoi pensieri nell’incontro con il clero di Bolzano-Bressanone dell’ 8 agosto 2008 e nel suo messaggio in occasione della recente seduta pubblica delle Pontificie Accademie del 24 novembre 2008: “Questo” – ha detto il Santo Padre nella prima circostanza – “è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano”.

Occorre aggiungere che per Benedetto XVI la bellezza della verità si manifesta soprattutto nella sacra liturgia. Infatti, ha ripreso la sua riflessione sulla bellezza redentrice di Cristo nella sua esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007), dove riflette sulla gloria di Dio che si esprime nella celebrazione del mistero pasquale. La liturgia “costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. (…) elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria” (n. 35).

La bellezza della liturgia si manifesta anche attraverso le cose materiali di cui l’uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l’edificio del culto, le suppellettili, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse. La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore. Nell’udienza generale del 6 maggio 2009, dedicata a san Giovanni Damasceno, noto come difensore del culto delle immagini nel mondo bizantino, Benedetto XVI spiega “la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio”.

Va riletto in merito anche il capitolo sul “Decoro della celebrazione liturgica” nell’ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia del servo di Dio Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove insegna che la Chiesa, come la donna dell’unzione di Betania, identificata dall’evangelista Giovanni con Maria sorella di Lazzaro (Giovanni, 12; cfr. Matteo, 26; Marco, 14), “non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia” (47-48).

La questione liturgica è anche essenziale per la valorizzazione del grande patrimonio cristiano non soltanto in Europa, ma anche nell’America Latina e in altre parti del mondo, dove il Vangelo è stato proclamato da secoli.

Nel 1904, lo scrittore Marcel Proust (1871-1922) pubblicò un celebre articolo su “Le Figaro“, intitolato La mort des cathédrales, contro la progettata legislazione laicista che avrebbe portato a una soppressione dei sussidi statali per la Chiesa e minacciava l’uso religioso delle cattedrali francesi.

Proust sostiene che l’impressione estetica di questi grandi monumenti sia inseparabile dai sacri riti per i quali sono state costruite. Se la liturgia non viene più celebrata in esse, saranno trasformate in freddi musei e diventeranno proprio morte.

Una simile osservazione si trova negli scritti di Joseph Ratzinger, cioè che “la grande tradizione culturale della fede possiede una forza straordinaria che vale proprio per il presente: ciò che nei musei può essere solo testimonianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a diventare presente vivo” (Introduzione allo Spirito della Liturgia, p. 152).

Durante il suo recente viaggio in Francia, il Papa si è riferito a questa idea nella sua omelia per i vespri celebrati il 12 settembre 2008, nella splendida cattedrale Notre-Dame di Parigi, elogiandola come “un inno vivente di pietra e di luce” a lode del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nella beata Vergine Maria. Era proprio lì, dove il poeta Paul Claudel (1868-1955) aveva avuto una singolare esperienza della bellezza di Dio, durante il canto del Magnificat ai vespri di Natale 1886, la quale lo condusse alla conversione. È questa via pulchritudinis che può diventare strada dell’annuncio di Dio anche all’uomo di oggi.

Uwe Michael Lang (©L’Osservatore Romano – 8-9 giugno 2009)

Il latino vincolo di unità fra popoli e culture

L’unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell’Impero Romano favorì l’annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l’idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.
La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell’Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino.
Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana.
Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell’Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell’incertezza sulla data, sull’origine e sul vero autore.
Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall’Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell’autore latino Mario Vittorino, risalente al 360.
Intorno a quell’epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos – un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell’epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l’uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell’VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi.
In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l’eccezione di poche reminiscenze dell’uso più antico, come il Kyrie eleison nell’Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c’erano più di quaranta chiese a Roma prima dell’editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura.
I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l’antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall’ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, “testi di preghiera”, dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi “destinati a essere letti, l’Epistola e il Vangelo”, e, terzo, “testi confessionali”, come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione.
Recenti ricerche su lingua e rito, come l’opera di Catherine Bell, confermano l’intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo.
La “sociolinguistica” – una disciplina accademica relativamente nuova – ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un’altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell’antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c’era una forte presenza pagana e specialmente l’aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites.
Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i “classici” della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni.
In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l’appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese.
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l’appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell’anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell’anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica.
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l’esuberanza dello stile di preghiera dell’Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un’adozione della lingua “vernacola” nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall’idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico.
È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l’armeno, il georgiano e l’etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l’unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione.
“La prima opposizione al latino liturgico – ha scritto Christine Mohrmann – coincise con la fine del latino medievale come “seconda lingua viva”, che fu rimpiazzato da una lingua veramente “morta”, il latino degli umanisti. E l’opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l’indebolimento dello studio del latino – e con la tendenza al “secolarismo”” (“The Ever-Recurring Problem of Language in the Church“, in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977).
Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l’uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che “l’uso della lingua latina … sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l’istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.

Uwe Michael Lang (©L’Osservatore Romano – 15 novembre 2007)

S. Messe cantate in latino a Vienna

Nella chiesa dei santi Rocco e Sebastiano a Vienna (Landstraßer Hauptstraße 54-56, 1030 Wien) ogni domenica alle 11 si celebra la s. Messa (novus ordo) cantata in latino, ad orientem.

Qui il programma.

Nella stessa chiesa, ogni giorno si celebra la s. Messa (novus ordo) in latino alle 7. Qui l’orario completo.

Preparare ed educare

Chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia. (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis 62)

I ask that future priests, from their time in the seminary, receive the preparation needed to understand and to celebrate Mass in Latin, and also to use Latin texts and execute Gregorian chant; nor should we forget that the faithful can be taught to recite the more common prayers in Latin, and also to sing parts of the liturgy to Gregorian chant. (Benedict XVI, Post-Synodal Apostolic Exhortation Sacramentum Caritatis 62)

Pido que los futuros sacerdotes, desde el tiempo del seminario, se preparen para comprender y celebrar la santa Misa en latín, además de utilizar textos latinos y cantar en gregoriano; y se ha de procurar que los mismos fieles conozcan las oraciones más comunes en latín y que canten en gregoriano algunas partes de la liturgia. (Benedicto XVI, Exhortación Apostólica Postsinodal Sacramentum Caritatis 62)

Je demande que les futurs prêtres, dès le temps du séminaire, soient préparés à comprendre et à célébrer la Messe en latin, ainsi qu’à utiliser des textes latins et à utiliser le chant grégorien; on ne négligera pas la possibilité d’éduquer les fidèles eux-mêmes à la connaissance des prières les plus communes en latin, ainsi qu’au chant en grégorien de certaines parties de la liturgie. (Benoît XVI, Exhortation Apostolique Post-Synodale Sacramentum Caritatis 62)

St. Bonifatius – Berlin

Heilige Messe in lateinischer Sprache

“Liebe Gemeinde, aufgrund der Nachfrage und weil ich auch selbst davon überzeugt bin, dass es gut wäre, die alte Gottesdienstsprache Latein nicht ganz zu vergessen, bieten wir in Zukunft die Feier von Lateinischen Messen an. Im Wechsel zwischen unseren Standorten werden wir einmal im Monat am Sonntag die hl. Messe in lateinischer Sprache feiern. Die Gemeinde kann durch das neue Gotteslob die Messtexte mitverfolgen und findet auch die entsprechenden Antworten verzeichnet. Ich hoffe, dass dieses Angebot bei Ihnen auf Interesse stößt.

Grüße Ihr Pfarrer Cornelius”

  • 06.05. um 9.00 Uhr in der St.-Johannes-Basilika
  • 02.09. um 10.30 Uhr in der St. Bonifatius
  • 07.10. um 9.00 Uhr in der St.-Johannes-Basilika
  • 04.11. um 10.30 Uhr in der St. Bonifatius
  • 02.12. um 9.00 Uhr in der St.-Johannes-Basilika

Kath. Pfarrei St. Bonifatius
Yorckstraße 88C
10965 Berlin
Telefon: 030 7890560
Fax: 030 789056-20

Website.

“Cara comunità, data la richiesta e poiché sono anch’io convinto che sarebbe bene non dimenticare completamente l’antica lingua latina del culto, in futuro celebreremo alcune s. Messe in latino. Alternando le nostre sedi, una volta al mese di domenica verrà celebrata la s. Messa in latino. La comunità potrà seguire il rito sui testi della Messa, dove si trovano anche le risposte appropriate. Spero che questa offerta vi interessi”.

L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia

La preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene.

Da: J. RATZINGER (BENEDETTO XVI), Introduzione allo Spirito della Liturgia, Ed. San Paolo, 2001, parte II, cap. III, “L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia”.

From the Archdiocese of Portland (OR)

May 1, 2018

Dear Faithful of the Archdiocese of Portland,

Beginning on the Solemnity of the Most Holy Body and Blood of Christ this year (June 3, 2018), Archbishop Sample has determined that during the celebration of Holy Mass, after the Lamb of God, the faithful will kneel. [A partire dal prossimo 3 giugno 2018, durante la celebrazione della Santa Messa, dopo l’Agnus Dei i fedeli si inginocchieranno]

This change will unite us with the Universal Church, the majority of the Dioceses in the United States and the other diocese (Baker) in the State of Oregon. More importantly, it will aid in the reverent participation of the Holy Mass and increase our devotion to the Holy Eucharist.

The current General Instruction of the Roman Missal (GIRM) states under the section regarding Movement and Postures that: “The faithful kneel after the Agnus Dei unless the diocesan Bishop determines otherwise.” [43] Previously, the Archdiocese had instructed that the faithful remain standing after the Lamb of God. [The General Instruction on the Roman Missal, 2000 Revisions and Adaptations for the Archdiocese of Portland in Oregon.]

After the Lamb of God, the faithful should remain kneeling until they move from their place to receive Holy Communion. The tradition of remaining kneeling after the reception of Holy Communion until the priest has returned to his seat is to be commended. [È lodevole la tradizione di rimanere in ginocchio dopo aver ricevuto la Santa Comunione fino a che il sacerdote non è ritornato alla sede]

Those who cannot kneel due to infirmity or other impediment should be seated so as to not impede the view of those who kneel.

Source: https://archdpdx.org/